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Quando ci fanno un complimento, può succedere una cosa strana: reagiamo elencando i nostri difetti. “Ho un bel sorriso? È il naso che mi frega”. “Mi sta bene il vestito? È perché nasconde la pancia”. Eccetera eccetera.
Capita soprattutto quando interagiamo con qualcuno che conosciamo appena: come se prima delle nostre qualità volessimo mettere in chiaro quello che ci manca. Ma rispetto a cosa?
La normalità è più astratta di quello che si crede: molti parametri che ci sembrano universali smettono di esserlo se usciamo dalla nostra bolla.
Però la bolla esiste, noi ci siamo dentro e il giudizio di chi ci sta intorno ci interessa, anche perché tendiamo a sovrastimare il tempo che le persone dedicano a pensare a noi.
Questo fenomeno si chiama “effetto riflettore”, e in parte spiega come mai molti presunti "difetti" lo siano solo se messi a confronto.
Sulla classica isola deserta, difficilmente avremmo il tempo di preoccuparci del nostro naso. Ma in società diventa importante: potrebbe attirare giudizi sgraditi.
Probabilmente perché quelli caratteriali sono più facili da nascondere: ci basta indossare una "maschera"
La teoria delle maschere è stata introdotta nel 1959 dal sociologo e psicologo Erving Goffman, che cercò di spiegare le interazioni sociali usando la metafora del teatro. Secondo Goffman, interagire significa prima di tutto trasmettere la propria immagine. Ci interessa fare bella figura, quindi adattiamo il nostro modo di essere al contesto, come se fossimo su un palco e indossassimo un costume.
Le caratteristiche fisiche sono meno malleabili. Con quelle sgradite, la convivenza può essere così difficile da farci decidere che non vogliamo più averci nulla a che fare.
Quando ci fanno un complimento, può succedere una cosa strana: reagiamo elencando i nostri difetti. “Ho un bel sorriso? È il naso che mi frega”. “Mi sta bene il vestito? È perché nasconde la pancia”. Eccetera eccetera.
Capita soprattutto quando interagiamo con qualcuno che conosciamo appena: come se prima delle nostre qualità volessimo mettere in chiaro quello che ci manca. Ma rispetto a cosa?
La normalità è più astratta di quello che si crede: molti parametri che ci sembrano universali smettono di esserlo se usciamo dalla nostra bolla.
Però la bolla esiste, noi ci siamo dentro e il giudizio di chi ci sta intorno ci interessa, anche perché tendiamo a sovrastimare il tempo che le persone dedicano a pensare a noi.
Questo fenomeno si chiama “effetto riflettore”, e in parte spiega come mai molti presunti "difetti" lo siano solo se messi a confronto.
Sulla classica isola deserta, difficilmente avremmo il tempo di preoccuparci del nostro naso. Ma in società diventa importante: potrebbe attirare giudizi sgraditi.
Probabilmente perché quelli caratteriali sono più facili da nascondere: ci basta indossare una "maschera"
La teoria delle maschere è stata introdotta nel 1959 dal sociologo e psicologo Erving Goffman, che cercò di spiegare le interazioni sociali usando la metafora del teatro. Secondo Goffman, interagire significa prima di tutto trasmettere la propria immagine. Ci interessa fare bella figura, quindi adattiamo il nostro modo di essere al contesto, come se fossimo su un palco e indossassimo un costume.
Le caratteristiche fisiche sono meno malleabili. Con quelle sgradite, la convivenza può essere così difficile da farci decidere che non vogliamo più averci nulla a che fare.
(Ci vorrebbe una puntata a parte)
La branca della chirurgia che interviene per modificare l'aspetto di persone clinicamente sane.
Una ricerca su 838 donne norvegesi ha riscontrato un generale miglioramento della soddisfazione per l'aspetto a 5 anni dall'operazione.
Uno studio su 1500 adolescenti ha correlato il ricorso alla chirurgia estetica alla presenza di ansia e depressione, non risolte dall’intervento.
La percentuale di persone con dismorfofobia – un disturbo che causa eccessiva preoccupazione per un difetto fisico lieve o assente – che ricorre a un intervento estetico.
La percentuale di pazienti con dismorfofobia che restano infelici del proprio aspetto anche dopo la chirurgia estetica.
(Ci vorrebbe una puntata a parte)
La branca della chirurgia che interviene per modificare l'aspetto di persone clinicamente sane.
Una ricerca su 838 donne norvegesi ha riscontrato un generale miglioramento della soddisfazione per l'aspetto a 5 anni dall'operazione.
Uno studio su 1500 adolescenti ha correlato il ricorso alla chirurgia estetica alla presenza di ansia e depressione, non risolte dall’intervento.
La percentuale di persone con dismorfofobia – un disturbo che causa eccessiva preoccupazione per un difetto fisico lieve o assente – che ricorre a un intervento estetico.
La percentuale di pazienti con dismorfofobia che restano infelici del proprio aspetto anche dopo la chirurgia estetica.
La chirurgia estetica può sciogliere la tensione tra quello che vediamo e che vorremmo vedere, al pari dei cosmetici, dell’esercizio o di un nuovo taglio di capelli. Ma queste scelte non ci impediscono di percorrere anche un’altra strada: accettare le cosiddette “imperfezioni” come qualcosa di nostro, invece che di estraneo.
Ne abbiamo parlato con Virginia Gambardella (@virgi_talks), che oltre a essere una nostra collega è anche una influencer: usa i suoi canali per promuovere un messaggio di quotidianità, accettazione e benessere complessivo.
Com’è stato il tuo percorso di accettazione del tuo corpo e della tua pelle? Hai vissuto fasi diverse?
Allora, è stato un percorso abbastanza lungo. Ci sono state fasi diverse, c'erano alti e bassi. Quindi c'erano dei periodi in cui mi vedevo meglio, e dei periodi in cui mi vedevo peggio. Si trattava di periodi più o meno lunghi, proprio perché non sono delle cose che si possono cambiare dal giorno alla notte.
La sfida è stata proprio convivere con queste sensazioni un po' negative che caratterizzavano i periodi di bassa.
Quanto ti pesava, e quanto ti pesa oggi, la glorificazione della perfezione che si può notare sulle pubblicità e sui social?
Io ho la sensazione che oggi si stia cercando un po' di smantellare questa immagine di perfezione che ci vendono nelle pubblicità che vediamo, che viviamo, che respiriamo ogni giorno anche sui social.
È comunque qualcosa che mi ha influenzato molto in passato, mi ha fatto sentire un po' insicura, inadeguata in alcuni contesti. Con il tempo ho iniziato a dare molta meno importanza all'aspetto fisico, soprattutto quello un po' artificiale che viene propinato tramite questi canali, e cerco di ricercare sempre l'autenticità.
Ci sono ancora dei giorni “no”? Come li affronti?
I giorni "no" ci sono ancora, come potrebbero mancare?
Cerco di affrontarli prevalentemente distraendomi, quindi provando a non pensarci, e cerco anche di capire che cos'è che mi stanno comunicando questi giorni "no". Io sento che il mio corpo - così come la mia pelle - mi parla. Mi piace pensare che ci sia un dialogo continuo, quindi anche quando ci sono dei giorni "no", provo un po' a capirli, provo un po' a isolarli, a comprenderli.
Cerchi di usare la tua voce sui social per promuovere un messaggio di normalità, e quotidianità fatta di alti e bassi. Quant’è importante raccontare l’imperfezione?
Più che parlare di imperfezioni, a me piace parlare di normalità. Penso che sia in un senso che nell' altro - quindi sia fare molta leva sulla perfezione, così come fare molta leva sull'imperfezione, sul difetto - sia sbagliato, proprio perché non vedo nessun valore aggiunto neanche nell'ostentare, nel celebrare l'imperfezione: è come se automaticamente questo meccanismo la rendesse diversa.
Invece io punto proprio sulla normalità.
Per me è importante, perché mi rendo conto che siamo tutti quanti diversi e per questo non siamo sbagliati, non c'è un canone unico. Non dobbiamo piegarci e sentire la pressione di cambiarci per aderire a degli standard che poi sono molto aleatori, molto volatili, che cambiano nei contesti storici.
I social media sono stati spesso accusati di promuovere la cultura dell’omologazione. Tu invece – e con successo – li usi per mandare il messaggio opposto. Sta cambiando qualcosa?
Io sì, onestamente sento che sta cambiando qualcosa.
Tante delle persone che mi scrivono, mi danno l'impressione che ricerchino un po' l'autenticità, soprattutto apprezzino chi si mostra per quello che è, e che non pretende di essere altro. Soprattutto i più giovani: penso si stiano opponendo a questa cultura dell'omologazione, della standardizzazione dei corpi, dei volti.
Penso che ci stiamo facendo portavoce di un movimento di cambiamento.
Si fa quello che ci si sente di fare. Che il nostro difetto sia vero o presunto, abbiamo il diritto di avere delle emozioni a riguardo e anche quello di volerlo affrontare.
”Affrontare” non significa per forza farlo scomparire. Ecco quattro consigli base per chi dovesse decidere di tentare la (faticosa) strada dell'accettazione.
A volte le caratteristiche sgradite fanno da capro espiatorio: si prendono la colpa di tutte le cose che non funzionano. Ma è davvero così? O stiamo dando loro un ruolo che non meritano?
Forse è vero che senza quel dettaglio avresti la vita più facile, ma quel dettaglio esiste. Se smetti di combatterlo, o se lo usi a tuo vantaggio, dove puoi arrivare?
Metti giù due liste: da una parte le cose che ti piacciono di te, dall’altra quelle che non sopporti. Poi riuniscile in un solo elenco. Potrebbe aiutarti a capire che fanno parte dello stesso insieme (tu).
Perfino il superficialissimo mondo dello spettacolo è pieno di star con caratteristiche non convenzionali. Trova quelle con cui hai un punto in comune e mettiti nei panni di chi le apprezza.
Per approfondire, dai un'occhiata a questi contenuti che non abbiamo fatto noi.