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Il negazionismo climatico ha visto tempi migliori. Secondo il World Economic Forum, sempre meno persone si rifiutano di credere all’esistenza, alle cause e alle conseguenze del riscaldamento globale.
Sembrerebbe una buona notizia, se non fosse che il merito è degli eventi climatici estremi, ormai così frequenti che è difficile ignorarli. Questo ha dei risvolti psicologici: leggere costantemente di siccità o di alluvioni scatena diverse risposte emotive, tutte poco piacevoli.
Innanzitutto c’è il senso di impotenza. Quando si parla di crisi climatica, sia i problemi che le soluzioni possono sembrarci fuori portata, troppo grandi per poter essere affrontate con i comportamenti individuali.
Ma possiamo anche provare fastidio. Un sentimento di rifiuto nei confronti dell’ennesima notizia che ci preoccupa e ci ricorda le nostre responsabilità (nostre di esseri umani).
E ovviamente c’è l’ansia: in presenza del possibile pericolo, la mente si attiva e ci porta ad assumere comportamenti protettivi, di fuga o di azione. Sentiamo il bisogno di fare qualcosa.
Ma si può fare ancora qualcosa?
È un fenomeno che riguarda soprattutto le nuove generazioni. In un sondaggio svolto su 10.000 giovani tra i 16 e i 25 anni, il 56% del campione ha dichiarato di credere che l'umanità sia condannata.
Come spiega il Washington Post, il problema di questo atteggiamento è che può paralizzarci. Se è vero che non possiamo più impedire che la Terra si riscaldi oltre una certa soglia, è importantissimo evitare ogni decimo di grado di aumento. Se però pensiamo che sia troppo tardi, difficilmente ci impegneremo per cambiare le cose: insieme alla fiducia, perdiamo anche la motivazione per raggiungere l’obiettivo.
Potremmo invece rinunciare alle nostre aspirazioni personali, come studiare, o avere dei figli, sulla spinta non soltanto della situazione reale, ma anche della nostra paura per il futuro del pianeta.
Il negazionismo climatico ha visto tempi migliori. Secondo il World Economic Forum, sempre meno persone si rifiutano di credere all’esistenza, alle cause e alle conseguenze del riscaldamento globale.
Sembrerebbe una buona notizia, se non fosse che il merito è degli eventi climatici estremi, ormai così frequenti che è difficile ignorarli. Questo ha dei risvolti psicologici: leggere costantemente di siccità o di alluvioni scatena diverse risposte emotive, tutte poco piacevoli.
Innanzitutto c’è il senso di impotenza. Quando si parla di crisi climatica, sia i problemi che le soluzioni possono sembrarci fuori portata, troppo grandi per poter essere affrontate con i comportamenti individuali.
Ma possiamo anche provare fastidio. Un sentimento di rifiuto nei confronti dell’ennesima notizia che ci preoccupa e ci ricorda le nostre responsabilità (nostre di esseri umani).
E ovviamente c’è l’ansia: in presenza del possibile pericolo, la mente si attiva e ci porta ad assumere comportamenti protettivi, di fuga o di azione. Sentiamo il bisogno di fare qualcosa.
Ma si può fare ancora qualcosa?
È un fenomeno che riguarda soprattutto le nuove generazioni. In un sondaggio svolto su 10.000 giovani tra i 16 e i 25 anni, il 56% del campione ha dichiarato di credere che l'umanità sia condannata.
Come spiega il Washington Post, il problema di questo atteggiamento è che può paralizzarci. Se è vero che non possiamo più impedire che la Terra si riscaldi oltre una certa soglia, è importantissimo evitare ogni decimo di grado di aumento. Se però pensiamo che sia troppo tardi, difficilmente ci impegneremo per cambiare le cose: insieme alla fiducia, perdiamo anche la motivazione per raggiungere l’obiettivo.
Potremmo invece rinunciare alle nostre aspirazioni personali, come studiare, o avere dei figli, sulla spinta non soltanto della situazione reale, ma anche della nostra paura per il futuro del pianeta.
(O "ansia climatica")
Uno stato cronico di allarme e di malessere per il destino del pianeta, a causa della crisi climatica.
Irritabilità, insonnia, perdita di appetito, scarsa concentrazione, attacchi di panico, apatia, senso di impotenza.
Le conseguenze e le prospettive della crisi climatica, ma anche il modo in cui vengono raccontate dai media.
La percentuale di giovani tra i 16 e i 25 anni che si è detta “esitante” alla prospettiva di avere dei figli, all’interno del sondaggio che abbiamo citato prima.
La percentuale di “millennial” – cioè la generazione nata tra il 1981 e il 1995, circa – che è stata testimone di almeno un evento meteorologico grave negli ultimi 12 mesi.
(O "ansia climatica")
Uno stato cronico di allarme e di malessere per il destino del pianeta, a causa della crisi climatica.
Irritabilità, insonnia, perdita di appetito, scarsa concentrazione, attacchi di panico, apatia, senso di impotenza.
Le conseguenze e le prospettive della crisi climatica, ma anche il modo in cui vengono raccontate dai media.
La percentuale di giovani tra i 16 e i 25 anni che si è detta “esitante” alla prospettiva di avere dei figli, all’interno del sondaggio che abbiamo citato prima.
La percentuale di “millennial” – cioè la generazione nata tra il 1981 e il 1995, circa – che è stata testimone di almeno un evento meteorologico grave negli ultimi 12 mesi.
Limitare l’ecoansia non significa sottovalutare il problema, o girarsi dall’altra parte, ma mettersi in condizione di lavorare per ridurre i danni che è ancora possibile ridurre, e convincere più persone possibili a fare lo stesso. Che è esattamente quello che serve alla nostra specie (il pianeta è sopravvissuto a momenti peggiori).
Ne abbiamo parlato con Camilla Mendini, che potresti conoscere come Carotilla (@carotilla_): è una divulgatrice e un’imprenditrice. Carotilla è anche il nome della sua azienda, che produce capi, accessori e cosmetici sostenibili.
«Che rapporto hai con l’ecoansia? Rispondi solo se ti va.»
«Pur essendo una persona la cui vita è costellata da anni da momenti più o meno forti di ansia, devo dire che per adesso l'ecoansia non è per qualcosa che mi sovrasta e che prende il sopravvento, come altri tipi di ansie che ho. E sebbene io dedichi molto tempo a informarmi e a divulgare di cambiamento climatico e dei suoi effetti, dei possibili e terribili scenari futuri che secondo report scientifici ed esperti potrebbero accadere, allo stesso tempo riesco ancora a mettere in prospettiva il problema e a essere proattiva a riguardo. Anzi, è come se più sento che ci sono effettivamente poche speranze per l'essere umano, più mi viene da sensibilizzare le persone sulla sostenibilità, mettendo però appunto tutto in prospettiva, e quindi rendendo chiaro che come singole persone, cittadini e consumatori abbiamo un limite, cioè riusciamo ad arrivare fino a un certo punto.
Certo, più siamo meglio è, infatti sposo molto la filosofia dell'imperfezione sostenibile: è meglio che tutti noi proviamo a impegnarci in qualche modo rispetto a pochi e perfetti perché non saranno loro a portare al cambiamento, però bisogna anche rendersi conto che servono in realtà delle leggi, dei controlli per regolamentare il mercato, per far sì che poi anche il consumatore possa cambiare il modo di consumare. Ma prima bisogna cambiare il modo di produrre e di utilizzare le risorse.»
«Hai iniziato a occuparti di sostenibilità come consumatrice. C’è stato un “primo acquisto” che ti ha messo su questa strada?»
«Più che un primo acquisto, forse sono state più situazioni, fenomeni non tangibili a farmi iniziare a comprare, consumare e pensare sostenibile. Quando ho iniziato a creare contenuti sui social media, era il 2015 o 2016 e non parlavo ancora di sostenibilità, mi sentivo un po' fuori posto, anche solo come spettatrice, rispetto alle altre persone che erano sui social e creavano contenuti: loro continuavano a mostrare acquisti su acquisti, i prodotti finiti, i prodotti consumati, i prodotti acquistati in saldo... e io mi sentivo molto diversa, cioè non avevo quell'attrazione, quella voglia di comprare e far vedere quanto compravo e quanto consumavo, non sentivo proprio di appartenere a questo tipo di divertimento, potremmo dire.
E poi c'è anche un'abitudine che avevo, cioè da sempre a casa mia si è comprato "second hand", quindi usato, si sono sempre riparate le cose che si rompevano, invece che buttarle via. Mia mamma mi ha segnato i cucire i vestiti, anche mia nonna lo faceva, abbiamo sempre creato con le mani, legno, tessuti, eccetera. Persone creative, insomma, in famiglia. E senza neanche sapere che poi alla fine questi erano comportamenti sostenibili. Quando poi ho capito che le abitudini che avevo erano effettivamente parte di una sostenibilità, allora ho abbracciato totalmente questa filosofia di vita e le ho dato anche un nome. E ho iniziato a parlarne sui social.»
«Il tuo stile di comunicazione è orientato all’ottimismo, a quello che si può fare. Rispetto all’allarmismo, trovi che sia un approccio più efficace per coinvolgere le persone?»
«Io parto dal presupposto che considero la sostenibilità come un presente auspicabile e un futuro prossimo – necessario, però un futuro bello, un futuro pieno di opportunità, di crescita, anche lavorative, professionali. Un futuro florido, una sostenibilità in senso assoluto, un ritorno a uno stile di vita diverso, a un equilibrio che oggi non c'è più, tra domanda e offerta, tra sfruttamento delle risorse naturali e dare il loro il tempo di rigenerarsi. Ma sostenibilità per me vuole anche dire creatività, arte, quindi sempre qualcosa di positivo, di produttivo, di creativo appunto, per me sostenibilità è creare qualcosa. E quindi i miei video sono spesso positivi e propositivi, perché trovo che sia l'approccio più vantaggioso per tutti.
Se ad esempio pensiamo che effettivamente bisogna cambiare le proprie abitudini per renderle più sostenibili come consumatori, e possiamo fare un parallelismo con lo smettere di fumare, ecco, non è pensando alle cose negative che ci fanno paura che effettivamente saremo contenti di smettere di fumare, ma magari pensando ai vantaggi che ci può dare lo smettere di fumare. È la stessa cosa, io penso ai vantaggi e parlo dei vantaggi di uno stile di vita sostenibile, per convincere anche altre persone ad abbracciarlo.»
«Sul tuo sito abbiamo trovato questa citazione: “Se provassimo a essere sostenibili in maniera imperfetta, riusciremmo a fare la differenza”. Quindi il punto non è essere sostenibili al 100%, giusto?»
«Io nell'imperfezione sostenibile ci credo così tanto da aver scritto un libro che si intitola proprio "Imperfetto sostenibile", nel 2020. Partendo proprio dal presupposto che la perfezione non genera secondo me una vera differenza, perché pochissimi riuscirebbero a raggiungerla, soprattutto in ambito di sostenibilità, allora è meglio essere in gran parte un po' tutti imperfetti, ma a iniziare a cambiare le nostre abitudini. E per "imperfezione" intendo comunque fare il meglio che si può. Non è un invito ovviamente a fare il minimo indispensabile, il meno possibile, ma è un invito a iniziare con abitudini che magari ci è più facile cambiare, che siano quelle alimentari, quelle legate agli acquisti di prodotti per la casa, prodotti beauty, vestiario, insomma, fare scelte più sostenibili in questi ambiti, che sia usare almeno la macchina, fare meno viaggi in aereo. Iniziare a fare qualcosa.
Perché un esercito di imperfetti sostenibili è molto più potente di pochi perfetti nelle loro azioni. E poi ricordiamoci che il consumatore viene sempre responsabilizzato troppo, dovremmo invece pretendere la perfezione e controllare le aziende, le banche, il settore petrolchimico, i trasporti e regolare loro, che sono i veri responsabili di inquinamento, di sfruttamento delle risorse, di un mercato iper consumistico. Ecco, magari da loro pretendere la perfezione. Mentre noi singoli cittadini possiamo rimanere imperfetti.»
«In questa puntata abbiamo spiegato che l’ecoansia è giustificata dallo stato delle cose, ma che ha il difetto di paralizzarci. Ci sono dei momenti in cui senti di non fare abbastanza? Se sì, come li superi?»
«Come dicevo all'inizio, l'ecoansia non ha ancora generato in me momenti di tale sconforto da sentire di non fare abbastanza. Perché metto un po' in prospettiva il tutto, e penso che sia per due motivi principali. Il primo è la mia età: ho quasi 37 anni, ho già fatto dei figli, ho già impostato la mia vita, mi sono già trasferita dall'altra parte del mondo senza neanche pensare alla sostenibilità, perché non faceva ancora parte della mia vita. Non le avevo ancora dato un nome. E da lì ho iniziato a rendere la mia vita passo per passo più sostenibile, però non ho dovuto iniziare da zero dopo l'università, o mentre studiavo. Avevo già messo dei mattoni per realizzarmi. So che tante persone che mi seguono e che sono più giovani si chiedono: ma un figlio lo voglio mettere al mondo in questo momento? E spesso queste persone soffrono effettivamente di ecoansia, e queste domande sono collegate al futuro che potrebbero potenzialmente avere i loro figli, i nostri figli.
Allora io consiglio di mettere tutto in prospettiva: già porsi queste e altre domande è sinonimo di qualcuno che è sensibile al problema, che vuole essere parte della soluzione. Che probabilmente cerca già di avere un impatto positivo nel mondo, più che un impatto neutrale o negativo. Già questo dovrebbe togliere un peso e smuovere la sensazione di non star facendo nulla. E poi ricordiamoci che siamo piccole pedine, che i grandi giocatori sono in politica e ai vertici di aziende, spesso multinazionali. Noi possiamo pesare molto quando andiamo a votare e quando decidiamo di non acquistare ad esempio prodotti di mass market, o fast fashion, ma scegliendo di comprare locale, sostenere le piccole imprese, gli artigiani, e di fare un voto anche politico, cercando sempre di sensibilizzare anche che abbiamo attorno. Ecco, queste sembrano piccole azioni, ma in realtà nascondono un grande potere.»
Darla per persa è sbagliato tanto quanto fare finta di niente. Abbiamo bisogno di trovare una preoccupazione costruttiva, che ci aiuti a ridurre gli impatti psicologici e a dare un contributo.
Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo la siccità. Ecco quattro consigli che potresti seguire.
È stato dimostrato che impegnarsi concretamente per il pianeta può ridurre l’ecoansia. Trova un’associazione che si occupa di ambiente e inizia a sporcarti le mani.
L'ansia favorisce il rimuginio, che a sua volta favorisce l’ansia. Per spezzare questo circolo, dedica dei momenti alle attività che ti piace fare – meglio se coinvolgono il corpo.
Fanno molto più male che bene. Preoccuparsi per il pianeta è giusto e razionale, ma premia quei media che cercano di informarti, e non di spaventarti.
Seleziona pochi comportamenti che puoi mettere in atto da subito, nella vita di tutti i giorni. Sapere di aver fatto una piccola differenza è un ottimo antidoto contro l’ansia eccessiva.
Per approfondire, dai un'occhiata a questi contenuti che non abbiamo fatto noi.
È un’azienda che realizza progetti di riforestazione per aiutare il pianeta e le comunità contadine: puoi piantare un albero e seguirne la crescita dal vivaio alla frutta. Abbiamo creato un podcast con loro: si chiama “Piove, c’è bel tempo” e parla proprio di ecoansia.