La salute mentale non ha bisogno di etichette
La salute mentale non dovrebbe essere giudicata attraverso etichette. Ognuno ha una propria esperienza unica e complessa, e ogni persona merita sostegno e comprensione senza essere definita da una categoria. La consapevolezza e la compassione sono fondamentali nel promuovere la salute mentale.
Una tendenza molto diffusa quando si intraprende un percorso di psicoterapia è quella di cercare subito una risposta, un nome o una diagnosi: la fretta di dare un nome al proprio malessere.
Tra i compiti del terapeuta c’è anche quello di ribaltare questo aspetto: decostruire quello che porta il paziente, reinterpretare la sua storia allargando il suo punto di vista e le capacità con cui riesce a valutarsi.
Molto spesso, il punto di partenza è un pensiero ripetitivo che porta a commettere errori, perché intrinsecamente ingannevole. Le cose non sempre si ripetono nello stesso modo: cambiano i dettagli, cambia il contesto e cambiano anche le persone.
Il percorso con il terapeuta necessita di arrivare da un pensiero ripetitivo a un pensiero creativo, allenando questa abilità che va a contrastare la tendenza a ripararsi nelle etichette.
Questa tendenza deriva anche da una società che ci chiede di essere molto performanti, a trovare velocemente le nostre risposte e a rifugiarci in percorsi già fatti. Quando non ci riusciamo, possono sopraggiungere sentimenti di ansia e la sensazione di non essere adatti al contesto che ci circonda. Utilizziamo allora delle scorciatoie verso una conoscenza frenetica che ci porta a sbagliare.
Un esempio molto diffuso di questa tendenza è affidare (solo) alla rete le risposte ai nostri malesseri, perché l’ansia vuole farci incasellare il problema il prima possibile. La società contemporanea rifugge le incertezze, necessita di un costante controllo e di un monitoraggio quasi ossessivo, come se tutto fosse reale solo quando riusciamo a chiuderlo in uno schermo per poi poterlo recuperare. Quando perdiamo il controllo, sentiamo la necessità di dare un nome a quello che proviamo.
Questa attitudine può portare anche a provare una certa frustrazione nei percorsi di terapia e supporto psicologico, causata dall’aspettativa (errata) di ricevere una “cura” immediata. La terapia, però, non lavora per dare nomi e definizioni. Lavora invece per cercare un’origine, i motivi di un dato malessere e le soluzioni per fornire strumenti efficaci.
Estrapolare il pensiero e non limitarsi a incasellare i problemi in maniera impulsiva e frettolosa richiede sforzi ed allenamento, in modo da usare un pensiero divergente che ci dia nuove strategie e che vada a contrastare il modo di pensare convergente che vuole subito spiegarci qualcosa.
L’attitudine ideale per affrontare un percorso di psicoterapia dovrebbe essere “cosa succede se non mi etichetto? ”, o “se evito la scorciatoia, cosa scopro sulla strada più lunga?”.
Un ulteriore aspetto da analizzare è la differenza tra le definizioni date in medicina e quelle date in psicologia. Non sentiamo mai parlare, ad esempio, di un paziente “polmonitico”, mentre capita spesso di sentir dire che un certo paziente è “depresso” o “bipolare”. Sembra molto più difficile per l’opinione pubblica staccare il paziente dalla propria patologia quando si parla di disturbi o malesseri mentali: in questa cornice è facile che nei pazienti si inneschino meccanismi di conferma, fondendo ulteriormente l’individuo e la patologia.
È fondamentale capire come la cultura agisce sull’individuo: alcune sindromi esistono solo in una certa parte del pianeta. Viviamo oggi un momento di demarcazione netta tra un passato preordinato, fatto di realizzazione, stabilità, certezze (anche se talvolta fasulle) e un presente ricco di incertezza e instabilità in attesa di una fase di rinascita. Stiamo ancora metabolizzando crisi economiche e sanitarie che ancora non sono risolte dentro di noi.
Abbiamo un grande bisogno di ridefinirci rispetto al futuro, circondati da una miriade di informazioni aggressive che rendono ancora più difficile orientarsi. Paradossalmente, questo stesso periodo storico ci ha anche insegnato che tutto può cambiare in un momento, per cui anche le certezze stesse rischiano di creare ansia per la paura di poterle perdere.
Come affrontare dunque le incertezze? I primi passi consistono nell’allenare il pensiero a seguire strategie creative e a tollerare la frustrazione, accettando il fatto che non possiamo controllare tutto e ricercando una comprensione dei bisogni anziché il controllo.
Qualsiasi elemento che erigiamo a necessario per il raggiungimento della felicità rischia di cadere e di caderci addosso: niente e nessuno potrà sostituirsi realmente a un nostro bisogno.
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Fonti
- Amerio, P. Fondamenti di Psicologia Sociale, Il Mulino, 2007.
- American Psychiatric Association, Psichiatria culturale: un’introduzione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004.
- Inghilleri, P. Psicologia culturale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2009.
- Tseng, W. Manuale di psichiatria culturale, CIC, Roma, 2003.
- Biondi, M. DSM V Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014.