Infanticidio: sotto il silenzio dei figli
L'infanticidio è l'atto di uccidere un bambino entro il primo anno di vita. Questo fenomeno, considerato uno dei più devastanti tra gli atti umani, ha radici profonde e complesse, variando notevolmente a seconda delle cause, dei contesti storici e sociali in cui si verifica.
Nel contesto delicato dell'infanticidio, emergono situazioni complesse che sollecitano una riflessione sulla fragilità umana e sulle circostanze che possono portare a tali tragici eventi.
Infanticidio o figlicidio significato
L'infanticidio è un tragico atto in cui un genitore uccide il proprio figlio, solitamente durante il primo anno di vita. L'infanticidio può avvenire per varie ragioni, e le motivazioni possono essere complesse e multifattoriali. In alcuni contesti storici, ci sono stati casi in cui l'infanticidio è stato praticato per motivi culturali, sociali o economici.
L'atto di uccidere intenzionalmente un bambino è spesso associato a:
- disturbi psicologici;
- stress emotivi;
- problemi familiari;
- situazioni di disperazione estrema.
In alcuni casi, l'infanticidio può essere collegato a disturbi mentali postpartum nelle madri.
Neonaticidio
Il neonaticidio, l'atroce atto di uccidere un neonato entro le prime 24 ore dalla nascita, svela una complessità di sfumature psicologiche e sociali.
I neonati, vulnerabili e indifesi, sono a maggior rischio di cadere vittime di questa tragedia, con il 20-25% delle vittime che hanno meno di un giorno di vita. Le madri emergono come principali autrici, mentre i padri sono raramente coinvolti.
Sorprendentemente, la morte del neonato spesso deriva dall'inazione, prevalentemente dalla trascuratezza, piuttosto che dalle azioni violente riscontrate negli omicidi di bambini più grandi.
Il sistema legale tratta le madri neonaticide con relativa indulgenza: molte non vengono incriminate, e coloro che subiscono una condanna spesso ricevono una pena condizionale.
Caratteristiche demografiche distintive emergono in questo contesto, con madri giovani, spesso sotto i 20 anni, single e ancora a vivere con i genitori. Le gravidanze sono in gran parte non pianificate e celate, alimentando la motivazione principale di questo atto tragico: il rifiuto del bambino indesiderato.
Contrariamente all'immagine stereotipata di madri mentalmente instabili, molte di coloro che commettono neonaticidio appaiono:
- passive;
- immature;
- dipendenti;
- con un'intelligenza mediamente inferiore.
La negazione della gravidanza gioca un ruolo centrale, a volte così potente da influenzare anche le percezioni degli altri. I parti, spesso rapidi e ignorati, portano alla resa della negazione, innescando ansie intense che possono sfociare in atti drammatici.
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Il fenomeno del figlicidio nella storia
Il fenomeno del figlicidio ha una storia che attraversa culture e secoli, non essendo un prodotto esclusivo dei tempi moderni.
Nell'antichità, dalla pratica greca di esaminare i neonati e uccidere o abbandonare quelli deformi o deboli, all'autorità del padre romano, che decideva sulla vita o morte dei propri figli, il figlicidio ha radici profonde nella storia umana.
Figure archetipe come Abramo, Medea ed Edipo Rex hanno contribuito a plasmare narrazioni mitologiche e religiose legate a questo atto tragico.
Nel corso dei secoli, le leggi sull'infanticidio hanno subito variazioni significative, dalle severe pene del passato fino alle leggi moderne che riducono la pena per le madri che uccidono i loro figli entro il primo anno di vita. Se ti interessa sapere della sindrome di Medea, leggi il nostro articolo.
Tuttavia, la difesa dell'infanticidio, ancorata a concetti ormai superati come la "follia da allattamento", continua a essere oggetto di controversie.
Sebbene la sua applicazione sia limitata alle madri che soffrono degli effetti del parto, la discussione sulla validità di premesse biologiche e la possibile presenza di fattori psicosociali mitiganti evidenziano la complessità del tema e le sfide nel trattare giuridicamente un atto così tragico.
Un figlio ucciso ogni due settimane: le statistiche in Italia
Dal 2010 a oggi, in Italia si sono verificati 268 casi di figlicidio, con una media di quasi uno ogni due settimane. Nel 55,6% di questi casi (149 in valore assoluto), le vittime erano bambini di età inferiore ai 12 anni.
Nello specifico, 106 di loro avevano tra 0 e 5 anni (il 39,7%), mentre 43 erano compresi tra i 6 e gli 11 anni (16,2%). I dati emergono da un'analisi del fenomeno condotta da Eures - Ricerche economiche e sociali.
In questo arco temporale, l'incidenza di vittime adolescenti è risultata decisamente inferiore, rappresentando il 9,6% del totale (26 casi), così come quelle dei figli maggiorenni (34,4% del totale, pari a 93 casi). Spesso, questi ultimi sono stati uccisi da genitori anziani incapaci di prendersi cura di loro o di sostenere fragilità fisiche e mentali, o a causa della loro dipendenza.
Tra le 268 vittime di figlicidio dal 2010 a oggi, il 56,8% erano maschi (151 casi), mentre il 43,7% erano femmine (117 casi). Questi dati offrono uno sguardo penetrante sulla complessità di questo fenomeno, evidenziando la varietà di circostanze e dinamiche che portano a tali tragiche situazioni.
Infanticidio femminile o figlicidio materno
Nella fascia di età 0-5 anni, emerge che le madri risultano essere le autrici prevalenti, contabilizzando 61 casi, pari al 57,5%, rispetto ai 45 commessi dai padri, che costituiscono il 42,5%.
È importante sottolineare che, in particolare, le madri sono responsabili della quasi totalità degli infanticidi/neonaticidi censiti, rappresentando 35 dei 39 casi complessivi. Una dinamica preoccupante che evidenzia la complessità delle sfide legate alla maternità e alla salute mentale femminile.
In aggiunta, emerge che il suicidio, spesso conseguente all'omicidio, soprattutto in contesti familiari e relazioni di coppia, si attesta a circa un terzo dei casi. Nei figlicidi, questa triste realtà raggiunge la sua incidenza più elevata, pari al 43,3%, mettendo in luce la profonda crisi emotiva e psicologica che può accompagnare tali eventi tragici.
Omicidio infantile: caratteristiche della vittima e dei perpetratori
L'omicidio di un bambino di età compresa tra un giorno e un anno rivela alcune caratteristiche distintive.
La probabilità di omicidio diminuisce con l'età del bambino, ma i neonati esclusi dalle statistiche mostrano che i bambini più piccoli sono a maggior rischio rispetto ai più grandi. La fragilità aumentata dei neonati potrebbe contribuire a questo rischio, con fattori come:
- difficoltà nell'alimentazione o nel sonno;
- pianto;
- nascite difficili che potrebbero incrementare il pericolo.
Uno studio condotto nello stato di Washington ha evidenziato che la mancanza di cure prenatali, il basso peso alla nascita e madri più giovani (<20 anni) sono associati a un aumentato rischio di morte per lesioni intenzionali.
Inoltre, i maschi hanno un rischio maggiore di subire sia lesioni intenzionali che non intenzionali.
In particolare, i maschi sono più a rischio di subire lesioni mortali, un fenomeno osservato anche in Inghilterra e Galles. Il rischio di morte violenta nei primi 6 mesi di vita è doppio rispetto ai bambini più grandi.
La questione di genere si manifesta anche tra i perpetratori, con la convinzione diffusa che l'omicidio infantile sia principalmente perpetrato dalle madri. Tuttavia, in Inghilterra, Galles e Scozia, i padri sono leggermente più propensi a commettere omicidi di bambini di età compresa tra un giorno e un anno rispetto alle madri.
Le modalità di omicidio variano: mentre le donne tendono a uccidere attraverso forme di soffocamento, gli uomini utilizzano metodi più violenti come pugnalate, percosse o sparatorie.
Queste differenze possono suggerire variazioni nella psicopatologia di genere in relazione a questo crimine.
Cause dell’infanticidio
Malattia mentale della madre
L'infanticidio, soprattutto quando commesso dalla madre, è spesso associato alla presunta presenza di disturbi mentali postpartum.
Questa prospettiva è riflessa nell'Infanticide Act (1938), che stabilisce che se una donna uccide il proprio bambino entro il primo anno di vita e al momento dell'atto il suo equilibrio mentale è disturbato a causa della non completa ripresa dagli effetti del parto o degli effetti dell'allattamento, l'offesa viene considerata infanticidio e punita come omicidio colposo.
Tale legislazione fa distinzione tra i sessi, in quanto i padri, in caso di condanna, ricevono più spesso pene detentive, mentre le madri tendono a ottenere condanne condizionali.
È fondamentale notare, tuttavia, che la correlazione tra malattia mentale e infanticidio non è sempre univoca, poiché molti casi sfuggono ai criteri diagnostici convenzionali.
Madri che maltrattano
Secondo D'Orban, piuttosto che attribuire le offese a malattie mentali, queste erano più verosimilmente il risultato di atti improvvisi e impulsivi che comportavano la perdita di controllo con il neonato.
D'Orban ha descritto questo gruppo come "madri maltrattanti".
Le madri maltrattanti erano caratterizzate da:
- contesti domestici caotici e violenti;
- separazione dei genitori in età infantile;
- violenza coniugale;
- problemi finanziari e abitativi;
- provenienza da famiglie numerose, spesso con una storia di discordie genitoriali;
- una storia familiare di crimine e precedenti penali.
Queste donne erano spesso incinte o avevano più di un figlio o figli malati al momento dell'offesa.
Le donne che uccidono bambini di età inferiore ai 6 mesi venivano più frequentemente categorizzate come "madri maltrattanti", mentre le madri di bambini più grandi venivano più frequentemente categorizzate come affette da malattia mentale.
Sembra che, sebbene la malattia mentale materna abbia contribuito a molti degli omicidi di neonati più giovani, più spesso i neonati sono stati uccisi, o quasi uccisi, a causa della perdita improvvisa di pazienza da parte della madre.
Problemi sociali
È evidente che sia necessario comprendere perché la genitorialità disfunzionale possa avere conseguenze così tragiche, non solo nel contesto della malattia mentale, ma forse più generalmente per genitori comuni in circostanze straordinarie.
A volte è stato suggerito che la "medicalizzazione" del reato di infanticidio potrebbe aver mascherato il contributo di fattori come:
- le circostanze sociali ed economiche;
- la conoscenza insufficiente sulla contraccezione;
- la cura dei bambini.
Sostenitori più entusiasti di questa visione suggeriscono che mantenere l'Infanticide Act non solo inibisca i progressi nella comprensione delle possibili cause di tali reati, ma favorisca anche la tolleranza verso l'uccisione e il maltrattamento dei bambini.
Esiste qualche evidenza che potrebbe sostenere questa visione: le donne descritte come "maltrattanti" da d'Orban sembravano essere caratterizzate da gravi e croniche difficoltà sociali.
Tuttavia, la presenza di deprivazione sociale in queste famiglie era accompagnata da relazioni personali che sembravano essere predominantemente disorganizzate e violente, ed è probabile che sia questa caratteristica che è collegata agli omicidi infantili piuttosto che la deprivazione sociale in sé.
In altre parole, l'omicidio infantile potrebbe essere una conseguenza del medesimo ciclo intergenerazionale di abusi e privazioni che è così frequentemente associato ai problemi sociali in primo luogo.
Difesa dell’infanticidio
La difesa dell'infanticidio, radicata in concetti superati come la "follia da allattamento", si presenta come un elemento controverso nelle leggi moderne.
La pena ridotta per le madri che commettono questo tragico atto, rispetto all'omicidio volontario, riflette un tentativo di evitare punizioni severe per donne spesso in situazioni svantaggiate e disperate.
Tuttavia, l'applicazione della difesa è limitata alle madri considerate affette dagli effetti del parto, con una presunta connessione tra malattia mentale e crimine che, nella pratica, spesso risulta sfumata.
Nonostante la consapevolezza delle premesse biologiche obsolete sottese all'infanticidio, persiste la convinzione che gli stress psicosociali vissuti da donne coinvolte in tali atti debbano essere considerati come fattori mitiganti.
Questo scenario sottolinea la complessità di bilanciare giustizia, comprensione delle variabili psichiatriche e la realtà sociale di individui coinvolti in uno degli atti più tragici e dolorosi della vita umana.
Fonti
- Friedman, S. H., Cavney, J., & Resnick, P. J. (2012). Mothers who kill: evolutionary underpinnings and infanticide law. Behavioral sciences & the law, 30(5), 585-597.
- Kimbrough, E. O., Myers, G. M., & Robson, A. J. (2021). Infanticide and human self domestication. Frontiers in psychology, 12, 667334.
- Marks, M. N. (1996). Characteristics and causes of infanticide in Britain. International Review of Psychiatry, 8(1), 99-106.